
Jan Kowalski
Lettere di Fumo: La Vita di Jan Kowalski
Jan Kowalski nacque in una gelida mattina del gennaio 1901, nel quartiere Praga di Varsavia, un’area già allora segnata da povertà, umidità e ombre lunghe. Figlio unico di un orologiaio e di una sarta ebraica, crebbe circondato da cadenze regolari di ingranaggi e dalle narrazioni mistiche del Talmud. A cinque anni già poneva domande che gli adulti ignoravano o temevano: “Cosa succede alla parola dopo che è stata detta?”
A dieci anni ricevette da uno zio bibliotecario un piccolo libro scritto in ebraico antico, privo di titolo e autore. Quel volume segnò l’inizio della sua ossessione per la cabala, la numerologia e i testi apocrifi. Nonostante un’apparente timidezza, Jan possedeva una memoria eccezionale e un’intuizione geometrica che gli permetteva di vedere relazioni simboliche dove gli altri vedevano solo casualità.
Negli anni ’20, Varsavia era un crocevia di intellettuali, mistici e profughi. Jan, allora ventenne, frequentava una cerchia occulta che si riuniva nei sotterranei di una sinagoga abbandonata. I membri discutevano di eoni, entità invisibili e alfabeti perduti. Era il più giovane del gruppo, ma presto divenne il più ascoltato. Si diceva che fosse in grado di costruire “mappe dell’anima” tracciando triangoli su fogli di lino, oppure che sapesse evocare immagini vivide nei sogni altrui semplicemente lasciando una lettera sotto la porta.
La sua fama varcò i confini della Polonia, e nel 1933 fu invitato a Berlino da un collezionista tedesco per tradurre un manoscritto babilonese. Jan accettò, ma restò solo quattro giorni: la notte prima della sua partenza vide in sogno un edificio in fiamme e una folla senza volto. Tornò a Varsavia in treno, silenzioso, e da quel giorno non lasciò più il suo quartiere.
Negli anni ’40, con l’invasione nazista, Jan scomparve dai registri ufficiali. Alcuni dissero che si era unito alla resistenza, altri che aveva trovato rifugio in una biblioteca sotterranea nei pressi del cimitero ebraico. In verità, si era rifugiato in un edificio fatiscente all’estremità del quartiere Praga, dove allestì una stanza rituale interamente tappezzata di pagine scritte a mano. Lì proseguì la sua ricerca, isolato dal mondo, accompagnato solo da un grammofono rotto e un corvo zoppo.
Nel dopoguerra, alcuni bambini del quartiere iniziarono a raccontare storie su un “uomo degli specchi”, che dava loro pezzetti di carta con simboli che poi si realizzavano. I genitori li rimproveravano, ma i racconti continuarono per anni. Quando l’edificio dove Jan si era rifugiato venne abbattuto nel 1954, fu trovata una sola stanza intatta, chiusa dall’interno. Dentro: una sedia, una lanterna spenta, e sulle pareti simboli tracciati con cenere.
Di Jan nessuna traccia. Alcuni affermano che fosse riuscito a trasmutare il proprio corpo in suono, lasciando dietro di sé solo echi. Altri credono che avesse trovato il “Settimo Nome”, la parola che dissolve la materia e ricompone il tempo.
Annotazioni Ritrovate nei Suoi Quaderni
- “Ogni lettera è un essere vivente. Scrivere è invocare.”
- “L’invisibile non è nascosto. È solo disattento.”
- “Il tempo è una lingua dimenticata che solo i sogni ricordano.”
Jan Kowalski non è mai apparso in alcun registro accademico, non ha pubblicato alcun libro, eppure il suo nome circola tra coloro che esplorano i confini tra linguaggio, magia e silenzio. Un nome semplice, comune, eppure introvabile — come se lui stesso fosse diventato uno dei simboli che tanto amava decifrare.